il blog dell'E45 Fringe Festival

il blog dell'E45 Fringe Festival

lunedì 18 luglio 2011

“BFR BESTIE FEROCI REVOLUTION” di Antonio Ferraro


Due cantanti-attori, un pianoforte in miniatura ed una chitarra classica: basta poco per trascorrere un’ora piacevole di risate e riflessioni, e tutto ciò grazie ai bravi interpreti di “Bestie feroci revolution”.
Lo spettacolo si articola in quattro movimenti-moduli, in cui la musica, colta o trash, la fa da padrona, e il tutto viene legato in un montaggio analogico stile blob.
La musica, però, è solo il pretesto per raccontare la storia del nostro Paese degli ultimi cinquant’anni, ma la riflessione non porta mai ad un giudizio lucido e completo perché la musica ti avvolge in un turbinio di sensazioni e ti trasporta da un modulo all’altro senza il tempo di pensare.
Il primo modulo, “Bestie feroci”, dà il titolo allo spettacolo, il secondo s’intitola “Paese dei Balossi”, il terzo “Passione e guerra” ed il quarto “Risvegli”.
Forse l’unica lacuna di questo spettacolo è proprio il modo in cui sono legati i vari moduli; in particolare le azioni che gli interpreti compiono nel passaggio da un momento all’altro danno l’idea di riempitivi non del tutto chiari. Ma non è proprio questa la caratteristica del teatro contemporaneo, cioè la moltitudine di sensi e significati che lo spettatore può dare alla rappresentazione?
Ma se il significato che noi diamo a quelle azioni può ritenersi soggettivo, esiste comunque un’uniformità di sensazioni all’interno di questo spettacolo: la trattazione di argomenti seri, spigolosi, e talvolta anche tragici, attraverso lo spirito del gioco, un po’ come quando da bambini ci portano al circo a vedere le bestie feroci.

Idoli di Giuseppe Giannelli

Una danza dell'immobilità


L'uomo contemporaneo è perso tra vizi e capitalismo che lo affossano in una vita che scorre nell'immobilità. Lo spettacolo “Idoli”, prodotto dalla “Carrozzeria Orfeo”, mette in mostra con atmosfere Pinteriane i nuovi vizi capitali, dove la famiglia non si accorge di quanto sia degradante la vita, con lo scorrere del tempo, verso il senso vuoto delle cose. Ogni personaggio è costruito su una desolante immagine viziata da consumismo, conformismo, e così via. Coniugi che cercano di uniformarsi passivamente al vivere secondo le cattive abitudini della società moderna. Un giovane figlio vittima della sua stessa bontà, incapace di relazionarsi con l’esterno se non usando esclusivamente la rete. Un nonno maldestramente accudito al solo scopo di usufruire della sua pensione. Infine una giovane coppia che basa il proprio rapporto su una comunicazione insolente, senza pudore e incentrata su un individualismo anarchico.
La drammaturgia di Gabriele Di Luca, che cura anche la regia insieme a Massimiliano Setti e Alessandro Tedeschi, appare in alcuni punti convincente, e mette in mostra le brutture di vite immobili, dove la violenza, verbale o fisica, è l'unica forma di rivolta contro quella che rappresenta una vita priva di obiettivi e di ideali. Il culto del vuoto, sicuramente il vizio meglio rappresentato anche scenograficamente, fa da trait d'union alla nera partitura che viene interpretata da un affiatato gruppo di attori, con una buona padronanza scenica, che delinea personaggi reali, a mio avviso, forse poco estremizzati.
Con disinvoltura gli interpreti costruiscono un itinerario interessante della società contemporanea con diversi spunti originali, anche se a tratti ancora intriso di retorica, come “la danza dell’immobilità”, un quadro comunque simpatico dove i protagonisti seduti su una sedia a rotelle mimano la passività e l’assenza di volontà nel cambiare il percorso della propria vita. Nessuna condanna, nessuna presa di posizione emerge dalla messa in scena se non il gelo che si diffonde sia emotivamente che scenicamente in un inquietante finale.


Sospiro d’anima di Daniela Nastri

UNA CORNICE DI LUCE DENTRO LA STORIA

Che a teatro lo spazio sia continua risignificazione con effetti, talvolta, di sorprendente suggestione, lo conferma l’autrice e attrice Aida Talliente, con il suo spettacolo “Sospiro d’anima”, in scena al Ridotto del Mercadante il 13 e il 14 luglio.
La scenografia che accoglie la performance è essenziale, ma fortemente simbolica: un cerchio di pietre e piccoli lumi delimita lo spazio agìto, al cui centro un arbusto  segna i colori del tempo,  che è generato dal monologo della protagonista e si fa ritmo di evocazione di memoria privata, costituendo, per lo spettatore, territorio d’appartenenza ad una storia divenuta rappresentazione, assurta ad  escatologia di un sentire collettivo.
Rosa Cantoni (1913-2009), la poetessa partigiana di Udine deportata a Ravensbruck nel 1945 e fuggita durante una “marcia della morte”, rivive davanti agli occhi del pubblico, con i suoi piccoli gesti d’anziana accorta e pensierosa, che mostra le foto dei propri cari e offre il caffè, come a sottolineare momenti di un rituale privato, teso all’estrinsecazione d’una sacralità sottesa ad un’esistenza comune ed esemplare. Nei momenti cruciali della narrazione, come una laica trasfigurazione, Rosina torna ad essere “Giulia”, la giovane infervorata adepta della Resistenza, che scrive febbrilmente poesie perché “parole e pensieri possono cambiare il mondo”.
E sono proprio le poesie a diventare camminamento di indicibile dolore: non appena la protagonista introduce il racconto della deportazione, i fogli destinati alla scrittura, tenuti insieme da spago sottile, diventano binari immaginari verso la morte, verso un altrove infernale dove “si perdono i pensieri”.
Lo spettacolo, accompagnato dalla fisarmonica di David Cej, si risolve nella realizzazione dell’unica rivolta possibile, quella dell’amore, in nome del quale  Rosina continuerà  a credere nella bellezza delle parole e delle stelle.
La Resistenza del pensiero e dell’amore, nonostante la barbarie, è dunque la vera sfida della protagonista che, una volta terminata l’affabulazione, porta a compimento la sua missione, uscendo dal cerchio magico di rimembranze ed entrando, a pieno titolo, nelle nostre coscienze.







Sospiro d’anima di Francesca Di Giacomo


Quando la scena diventa il simulacro della sacralità rappresentativa, il teatro ritorna alle origini della propria primordiale essenza contemplativa. Quando la scena è essenzialmente e simbolicamente abitata e vivificata da una “sacerdotessa” della memoria, filtro mediatico fra due mondi, allora sì, si può dire di assistere ad una rappresentazione teatrale degna di rispetto.
Un cerchio di pietre illuminato da piccoli lumini, un albero bianco sterile e stecchito, cassetti, scatole, vecchi oggetti trascinano citazioni infinite. Un senso profondo di inquietudine e di leggera follia aleggia nell’aria densa  e  quasi asfittica della saletta dello Stabile napoletano; un’angoscia esistenziale si insinua nei pensieri permeabili degli spettatori forse turbati, o sicuramente impressionati, dalle farneticazioni incomprensibili di una “vecchia” donna che nella sua compostezza scomposta racchiude il percorso tortuoso di un’intera vita. La musica di una fisarmonica accompagna le sue peregrinazioni interiori.
La comunicazione: un bisogno esistenziale.
“Parole e pensieri possono cambiare il mondo”.
La vecchietta, Rosina Cantoni, prima di andare – ma andare dove? – “deve” raccontare la sua vita perché nel racconto vi è il senso. La memoria non è più un cassetto abbandonato di un passato vissuto e dimenticato, ma la costante presenza e conseguenza di un presente destinato al racconto che consegni tutto al futuro.
Attraverso una capacità attoriale sofisticata, attenta, delicata, travolgente, trasparente, ricercata nelle sue estreme possibilità, l’interprete e autrice indaga, porta alla luce, o semplicemente vivifica il mondo che fu di Rosina, poetessa della Resistenza friulana. Ne ripercorre la vita attraverso pensieri, musiche, parole, ricordi che si estrinsecano mediante vecchie foto di famiglia o una tazzina di caffè, elementi scenici di contatto col pubblico, vero protagonista della rappresentazione perché destinatario e depositario attivo del messaggio che Rosina deve assolutamente lasciare prima di andare – ma andare dove?.
Dopo aver presentato le sue origini, la sua famiglia, Rosina comincia a “parlare” di sé, una comunicazione che, a fasi alterne, avviene con il pubblico e con se stessa. Difatti, nei momenti in cui la musica di David Cej  sale, l’esigenza comunicativa ripiega su una dimensione introspettiva, in quel dialogo infinito del poeta con se stesso.
La bellezza coinvolgente dell’allestimento è racchiusa nell’estrema competenza dell’attrice che attraverso una gestualità discorsiva e una mimica “mimetica” e del viso e del corpo riesce a sdoppiarsi continuamente nel corso del racconto di “una vita”, a creare i personaggi, a passare dal presente al passato, dalla vecchiaia alla giovinezza anche attraverso cambi di dizione. Un italiano regionale, con inserzioni puramente dialettali, caratterizza, infatti, il parlato di Rosina che racconta; un italiano standard, con dizione curata, rappresenta, invece, la Rosina  giovane e adulta che rievoca le sue avventure: il lavoro in fabbrica, l’avvento del fascismo, l’iscrizione al Partito Comunista, la Resistenza, il campo di concentramento, la liberazione.
Tutto attraverso il “tutto” dell’esperienza vitale, tutto attraverso le poesie di Rosina, una poesis che coinvolge, raccoglie, commuove fino a toccare l’anima, attraverso il sospiro di quell’anima che si condensa in un “soffio” di povere bianca nel passaggio di un’esistenza.

B.F.R. Bestie Feroci Revolution di Marco Stacca

Una gaia giullarata


«Siamo ragazzi di Quartu». Si potrebbero presentare così Fabio Marceddu e Antonello Murgia, che in un punto del loro “B.F.R.” in questa maniera parafrasano il primo verso della “Terra promessa”. Sul palco con loro una chitarra classica, che Murgia (autore e regista dello spettacolo) suona molto meglio di come canta, e un pianoforte in miniatura, che Marceddu parodisticamente strimpella, emulando in modo caricaturale il mulinare fisico di quella parte triste dell’ultima generazione pianistica italiana che vede Allevi capofila. Strumenti e interpreti funzionali all’idea che muove lo spettacolo, una sorta di medley parodistico (termine che ci pare più pertinente di “sinfonia” e più gratificante di “operina”), dai risvolti invero impegnati, con uno sguardo in più punti critico e tagliente verso l’attuale situazione politica e sociale italiana. Riscritture ironiche e sarcastiche di brani celebri della canzone italiana e i cui modelli non sono da ricercarsi nel panorama televisivo (negli esiti raggiunti dall’allegra combriccola di Zelig, per intenderci) ma nella “canzone d’impegno” di cui Giorgio Gaber rimane maestro insuperato e Dario Fo degno seguace. Non è quindi un caso che fra i primi brani della serata (peraltro sempre assemblati in ragione di una sempre visibile coerenza musicale) compaia proprio “Ho visto un re”, della coppia Fo-Jannacci, pungente e divertente satira contro i potenti dai tratti boccacceschi. Su questa linea si schierano anche le “rivisitazioni” del “Senza fine” di Gino Paoli (che diventa “Senza Fini”, omaggio alla “solitudine” del partito di maggioranza, privato di Gianfranco), “Papaveri e papere” (dedicata a Brunetta), “Zingara” (esilarante il primo verso: “Prendi quella nave, Zingara”, per i suoi rimandi al dramma delle migrazioni) e “Happy day” (acconciato per l’occasione in “Happy gay”).
A questi momenti, in cui è la tecnica della riscrittura del testo a prevalere sulla logica musicale, se ne alternano altri in cui il medley raggiunge esiti efficacissimi per rapidità e riuscita del meccanismo comico (canzoni fra le più differenti vengono avvicinate per associazioni logiche e pochi versi): è questo il caso, fra gli altri, di Menomale che Silvio c’è (l’inno del PdL), della grottesca ripresa del “Va’ pensiero” (in omaggio a quei Verdi che lo vorrebbero – Ahinoi! – inno di una nazione o di un popolo), “Fratelli d’Italia” (esilarante con l’imitazione della Vanoni), “Un nano” di De Andrè (omaggio alle “vertiginose altezze” – fisiche e non – toccate del premier), “Non sono una signora”. C’è ache spazio per le canzoni per bambini con un gustoso arrangiamento rhythm and blues della “Vecchia Fattoria” e “Fra Martino Campanaro”, che Murgia e Marceddu eseguono in tonalità minore, ossia non come citazione dell’originale ma del terzo movimento del “Titano” di Gustav Mahler. A separare i quattro moduli in cui erano incasellati i medley (Bestie feroci, Il Paese dei Balossi, Passione e Guerra e Risvegli) inserti preregistrati di film, racconti, dialoghi, commistioni di linguaggi differenti dei quali più continuiamo a chiederci la ragione ultima più seguitiamo a ritenerli tentativo superfluo di sperimentazione fine a se stessa. La coerenza in teatro non è sinonimo di noia… la musica, qui apprezzata in tutte le sue mille sfumature (dal colto al trash) è di per sé una efficace garante di teatralità. Ciò detto, “Bestie Feroci” non è “Revolution” ma più che altro “Renaissance”, ossia un’occasione per riscoprire la tecnica del medley come strumento di teatro civile. 

venerdì 15 luglio 2011

“YES GRAZIE” di Arianna Esposito

IL ONE WOMAN SHOW DELLA BEVER

Quando si dice la partecipazione del pubblico in sala, è quello che precisamente è accaduto ieri sera durante lo spettacolo della statunitense Alice Vanessa Bever presso la Galleria Toledo (preceduto dall’offerta di frizzante vino rosso al pubblico in attesa), in un one woman show liberamente ispirato al Café Chantant napoletano ed al Vaudeville francese.
La Bever, regista ed unica attrice del suo spettacolo, ha intrattenuto il pubblico rivolgendosi a tu per tu con i presenti in sala (chiamandoli anche ad alzarsi in piedi), in briosi numeri da cabaret con una buona dose di ironia e ringraziando il pubblico della presenza, ripetendo spesso il titolo dello spettacolo, per l’appunto: “Yes Grazie”.
“Yes Grazie”, perché la Bever nonostante sia americana è molto legata al territorio partenopeo ed ha deciso di approfondire il fenomeno dei Cafè Chantant , che ha omaggiato con abiti di scena ricoperti di piume e paillettes che richiamavano la moda di quegli anni.
Numeri di canto e ballo, come nella migliore tradizione del Vaudeville ma anche con accenni al Burlesque, l’attrice si è infatti esibita in “I wanna be loved  by you” di Marylin Monroe, essenza pura del divismo , “My Man” di Fanny Brice e “Dream a little dream” di Luis Armstrong, ma anche declamazioni poetiche, prese a prestito dal poeta E.E. Cummings.
Ne risulta uno spettacolo che consta su numeri di vera e divertente improvvisazione fuori dai canoni della rappresentazione teatrale, fatta di tempi e spazi ben definiti. Ciò è reso possibile grazie all’indiscutibile talento dell’attrice che canta, balla e recita in maniera eccellente, però pecca forse a livello di contenuti, dal momento in cui non porta in scena nulla di nuovo, limitandosi a proporre percorsi artistici già ampiamente battuti.


Saluti da… di Francesca Di Giacomo

“Perdersi  significa che tra noi e lo spazio non c’è solo un rapporto di dominio, ma anche la possibilità che sia lo spazio a dominare noi..
Nelle culture primitive invece, se uno non si perde non diventa grande” (cit.)

Sarebbe riduttivo e poco identificativo definire “Saluti da…” di Lucia Citterio uno spettacolo teatrale di danza.
Per comprenderne il senso bisogna, innanzi tutto, inquadrarlo come “progetto itinerante”; un progetto che come spiega la regista, ideatrice ed interprete, in un breve incontro post- rappresentazione, nasce qualche anno fa, in seguito a diversi anni di ricerca. Dopo Dakar e La Habana arriva Napoli, i suoi luoghi: il mare, il molo, le barche, le persone/personaggi, le passioni, le contraddizioni di una città in divenire tanto rappresentativa quanto astratta. La trasfigurazione scenica attuata attraverso il movimento manifesta proprio una dicotomia estrinseca quanto intrinseca di concretezza di immagini e astrazione di contenuti, talvolta, troppo paradossali per essere vivificati e palesemente intesi. Il percorso interpretativo compiuto dalla danzatrice parte, ovviamente, da idee autorappresentative e parziali a priori circa l’oggetto dell’ indagine stessa che si classificano come momento iniziale del processo catartico di immersione nell’urbe prescelta.  Ma, è dallo scarto tra una naturale immaginifica dimensione intellettiva  a prioristica, e un’esperita dinamica a posteriori di conoscenza di sé attraverso il luogo e del luogo attraverso il sé, che l’esperienza scenica si concretizza e diventa solo il passaggio transitorio del progetto itinerante a cui si è fatto riferimento.
Il momento scenico motorio si arricchisce di sequenze e rituali con brevi riferimenti a danze africane e nipponiche di cui, come si legge nella sua biografia, la danzatrice ha diretta esperienza per avvenuta formazione in quei luoghi. Non mancano simbologie “misticheggianti” ottenute attraverso richiami cromatici vermigli, realizzati con nastro adesivo applicato durante l’esecuzione in diverse parti del corpo in continua “comunicazione” e tentativi di “contatto”. La struttura scenica è ben costruita dalla danzatrice che fissa degli steps ai quattro angoli - dove tra l’altro si compiono i “mini rituali”- del palcoscenico ritagliato ad hoc e all’interno dei quali l’espressione liberatoria del sé e del dove trova le sue forze  e i significati del perdersi e del trovarsi nel labirinto della ricerca.

“Attraversando ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più di avere:l’estraneità di ciò che non sai più o non possiedi più ti aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti.[..]
Viaggi per rivivere il tuo passato?
Viaggi per ritrovare il tuo futuro?
L’altrove è uno specchio in negativo.
Il viaggiatore riconosce il poco che è suo scoprendo il molto che non ha avuto e  non avrà.”

(Italo Calvino, Le città invisibili)