il blog dell'E45 Fringe Festival

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lunedì 18 luglio 2011

B.F.R. Bestie Feroci Revolution di Marco Stacca

Una gaia giullarata


«Siamo ragazzi di Quartu». Si potrebbero presentare così Fabio Marceddu e Antonello Murgia, che in un punto del loro “B.F.R.” in questa maniera parafrasano il primo verso della “Terra promessa”. Sul palco con loro una chitarra classica, che Murgia (autore e regista dello spettacolo) suona molto meglio di come canta, e un pianoforte in miniatura, che Marceddu parodisticamente strimpella, emulando in modo caricaturale il mulinare fisico di quella parte triste dell’ultima generazione pianistica italiana che vede Allevi capofila. Strumenti e interpreti funzionali all’idea che muove lo spettacolo, una sorta di medley parodistico (termine che ci pare più pertinente di “sinfonia” e più gratificante di “operina”), dai risvolti invero impegnati, con uno sguardo in più punti critico e tagliente verso l’attuale situazione politica e sociale italiana. Riscritture ironiche e sarcastiche di brani celebri della canzone italiana e i cui modelli non sono da ricercarsi nel panorama televisivo (negli esiti raggiunti dall’allegra combriccola di Zelig, per intenderci) ma nella “canzone d’impegno” di cui Giorgio Gaber rimane maestro insuperato e Dario Fo degno seguace. Non è quindi un caso che fra i primi brani della serata (peraltro sempre assemblati in ragione di una sempre visibile coerenza musicale) compaia proprio “Ho visto un re”, della coppia Fo-Jannacci, pungente e divertente satira contro i potenti dai tratti boccacceschi. Su questa linea si schierano anche le “rivisitazioni” del “Senza fine” di Gino Paoli (che diventa “Senza Fini”, omaggio alla “solitudine” del partito di maggioranza, privato di Gianfranco), “Papaveri e papere” (dedicata a Brunetta), “Zingara” (esilarante il primo verso: “Prendi quella nave, Zingara”, per i suoi rimandi al dramma delle migrazioni) e “Happy day” (acconciato per l’occasione in “Happy gay”).
A questi momenti, in cui è la tecnica della riscrittura del testo a prevalere sulla logica musicale, se ne alternano altri in cui il medley raggiunge esiti efficacissimi per rapidità e riuscita del meccanismo comico (canzoni fra le più differenti vengono avvicinate per associazioni logiche e pochi versi): è questo il caso, fra gli altri, di Menomale che Silvio c’è (l’inno del PdL), della grottesca ripresa del “Va’ pensiero” (in omaggio a quei Verdi che lo vorrebbero – Ahinoi! – inno di una nazione o di un popolo), “Fratelli d’Italia” (esilarante con l’imitazione della Vanoni), “Un nano” di De Andrè (omaggio alle “vertiginose altezze” – fisiche e non – toccate del premier), “Non sono una signora”. C’è ache spazio per le canzoni per bambini con un gustoso arrangiamento rhythm and blues della “Vecchia Fattoria” e “Fra Martino Campanaro”, che Murgia e Marceddu eseguono in tonalità minore, ossia non come citazione dell’originale ma del terzo movimento del “Titano” di Gustav Mahler. A separare i quattro moduli in cui erano incasellati i medley (Bestie feroci, Il Paese dei Balossi, Passione e Guerra e Risvegli) inserti preregistrati di film, racconti, dialoghi, commistioni di linguaggi differenti dei quali più continuiamo a chiederci la ragione ultima più seguitiamo a ritenerli tentativo superfluo di sperimentazione fine a se stessa. La coerenza in teatro non è sinonimo di noia… la musica, qui apprezzata in tutte le sue mille sfumature (dal colto al trash) è di per sé una efficace garante di teatralità. Ciò detto, “Bestie Feroci” non è “Revolution” ma più che altro “Renaissance”, ossia un’occasione per riscoprire la tecnica del medley come strumento di teatro civile. 

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